Cinquant’anni fa, il 5 novembre 1970, i rappresentanti dell’Italia e della Repubblica Popolare Cinese (RPC o anche Cina) firmarono a Parigi il comunicato congiunto per lo stabilimento delle relazioni diplomatiche tra i due paesi e il giorno seguente tali relazioni ebbero ufficialmente inizio. Le relazioni tra Italia e Cina si sono sviluppate in questo mezzo secolo in modo sostanzialmente positivo, scontando anche periodi di difficoltà dovuti all’andamento della situazione politica nei due paesi.
Le statistiche ufficiali indicano che poco più della metà del nostro export (51%) è diretto verso i 26 paesi dell’Unione, un ulteriore 16% verso altri paesi europei extra Ue. L’Europa sarebbe quindi destinatario del 67% del nostro export. Un ulteriore 27% è equamente suddiviso tra Asia e America (circa 13% a testa). Questa visione, secondo l’analisi dell’ex sottosegretario di Stato Michele Geraci non è corretta, perché le statistiche ufficiali pubblicate da Istat riguardano soltanto i rapporti bilaterali diretti tra l’Italia ed i paesi importatori, spesso non tengono conto che il paese di prima importazione dei nostri prodotti non è il paese dove le merci vengono consumate, ma queste vengono poi rigirate verso paesi terzi che sono i consumatori finali. Secondo lo stesso, gli scambi tra Italia e Repubblica popolare sono cresciuti più di quelli ufficiali e per valore vengono dopo quelli con Germania, Usa e Francia. Ad esempio, l’integrazione economica con la Cina (e non solo) non si limita come già detto agli scambi bilaterali. L’Italia contribuisce alla produzione di beni in paesi terzi, che poi trovano in Cina il loro mercato di sbocco finale. L’esempio più importante è rappresentato dalle filiere dell’automotive, in cui le aziende italiane vendono in Germania la componentistica che viene assemblata da marchi come Volskwagen, BMW o Mercedes, che a loro volta esportano il prodotto finito in Cina. Altre filiere della meccanica hanno logiche simili. Per l’Italia lo share di prodotti intermedi sul totale è circa il 50%, quindi circa 250 miliardi del nostro export non è detto che vengano utilizzati nel primo paese di importazione, anzi, con la crescente complessità della Global Value Chain, una grossa parte finisce in paesi sempre più lontani.
Anche le interazioni con la Cina nel settore del lusso sono sottostimate. Per molte imprese di questo settore i consumatori cinesi sono il primo o secondo mercato di sbocco. Solamente una parte di questi, però, compra mentre si trova in Cina: in media circa i due terzi, con importanti differenze tra sottosettori, comprano quando si trovano all’estero o a Hong Kong. Le motivazioni di tale comportamento sono duplici: da un lato, i prezzi in Cina sono più elevati a causa di dazi e di una tassazione particolarmente elevata sui beni di lusso, dall’altro all’estero i consumatori cinesi percepiscono un rischio minore di acquistare prodotti contraffatti.
Tali correzioni cercano di ribaltare le statistiche ufficiali e quindi di fornire un quadro completamente diverso della situazione, dove l’Unione Europea rappresenta si la maggioranza del nostro export, ma in maniera ridotta e non rappresentando più il 67% del totale, mentre appunto la Cina vede la propria percentuale alzarsi considerevolmente.
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